13 Gen Io non mi chiamo Miriam – libro del mese Giornata della memoria 2017
di Majgull Axelsson
Iperborea, 2016 – 562 pagine
E' un opera di narrativa i cui personaggi sono inventati (ad eccezione di alcuni riferimenti storici e di vita vissuta) ma che ti coinvolge nel suo realismo crudele e umanissimo.
Lei scrive di Auschwitz e Ravensbruck senza esserci stata come internata, ma visitando e raccogliendo preziose testimonianze li racconta.
Racconta di come Malika, la zingara, diventò Miriam, l'ebrea. Racconta di una vita tenacemente vissuta su questo scambio di identità, nella necessità esistenziale di mantenere un “posto”, in una società “civile” che è sempre comunque alla ricerca di qualcuno da emarginare e perseguitare.
Se vuoi prova a leggere il primo capitolo
consigliato da Patrizia
Abstract: «Io non mi chiamo Miriam», dice di colpo un'elegante signora svedese il giorno del suo ottantacinquesimo compleanno, di fronte al bracciale con il nome inciso che le regala la famiglia. Quella che le sfugge è una verità tenuta nascosta per settant'anni, ma che ora sente il bisogno e il dovere di confessare alla sua giovane nipote: la storia di una ragazzina rom di nome Malika che sopravvisse ai campi di concentramento fingendosi ebrea, infilando i vestiti di una coetanea morta durante il viaggio da Auschwitz a Ravensbrück. Così Malika diventò Miriam, e per paura di essere esclusa, abbandonata a se stessa, o per un disperato desiderio di appartenenza continuò sempre a mentire, anche quando fu accolta calorosamente nella Svezia del dopoguerra, dove i rom, malgrado tutto, erano ancora perseguitati. Dando voce e corpo a una donna non ebrea che ha vissuto sulla propria pelle l'Olocausto, Majgull Axelsson affronta con rara delicatezza e profonda empatia uno dei capitoli più dolorosi della storia d'Europa e il destino poco noto del fiero popolo rom, che osò ribellarsi con ogni mezzo alle SS di Auschwitz. Io non mi chiamo Miriam parla ai nostri giorni di crescente sospetto verso l'«altro» interrogandosi sull'identità – etnica, culturale, ma soprattutto personale – e riuscendo a trasmettere la paura e la forza di una persona sola al mondo, costretta nel lager come per il resto della vita a tacere, fingere e stare all'erta, a soppesare ogni sguardo senza mai potersi fidare di nessuno, a soffocare i ricordi, i rimorsi, il dolore per gli affetti perduti: «Non si può dire tutto! Non se si è della razza sbagliata e si ha vissuto sulla propria pelle l'intero secolo.»
Sorry, the comment form is closed at this time.